GIROLAMO ROMANINO,
SDEGNOSO E SDEGNATO BARBARO
Scarsi i documenti sul nostro uomo, che si limitano a testimoniare che è sposato con Paola, ha un buon numero di figli (ben sette), gode di continue commesse di lavoro, vive con una certa agiatezza, non è granché abile nel farsi pagare.
Quanto alla personalità del pittore il critico Maria Luisa Ferrari parla di vitalità straripante, inaudita ricchezza di estri e sentimenti, temperamento bizzarro.
Nulla sappiamo dellinfanzia di Girolamo, qualcosa si suppone dun tirocinio a Venezia; non si trovano riscontri circa l'apprendistato presso Vincenzo Foppa: forse la formazione pittorica si svolge a Brescia, sua città natale. Nel 1508-1509 (cioè verso i 22 o 24 anni) - secondo lo studioso Fausto Leoni - è titolato duna sua bottega. È probabile che luomo umorale e sanguigno viva di persona, o quantomeno dolorosamente subisca, i fatti terribili che toccano Brescia in quegli anni: passaggi di eserciti, pesti, cattive annate, il sacco di Gastone de Foix. Puntuale riscontro a tutto questo troviamo nelle opere, materiale di violenta aggressività, o ispirate da solidale compassione umana. Si aggiunga poi che ad innegabili travagli per i corpi, questepoca riserva particolari tormenti per anime e coscienze: è il tempo delle due Riforme, quella protestante e quella cattolica.
Molte le parentele artistiche ipotizzate per il Romanino: Bellini, Giorgione, Tiziano. Di lui parlano in toni encomiastici Giorgio Vasari (sec. XVI), Ottavio Rossi (XVII), Luigi Lanzi (XVIII), Jacob Burckhardit (XIX), Roberto Longhi (1917). Giovanni Testori dice: «Del Romanino e del mondo culturale ed artistico bresciano tutto minteressa. È una cultura violentemente umana, ma violentemente alternativa alle culture diciamo privilegiate: porta avanti il peso, il diritto, il sudore, il dolore di una realtà che ha sempre avuto funzione di opposizione ai grandi sistemi, ai grandi trionfalismi, ai grandi idealismi del Rinascimento».
L'artista opera una scelta anticlas-sicistica, rinnovando, rivisitando, riformando - sostiene Fausto Lorenzi - il realismo creaturale già usato nel Medioevo gotico. Si parla, a proposito, dei cicli di Pisogne e di Breno, di deformazione espressionistica delle figure, di grottesco pantagruelico.
Bruno Passamani, notando che gli affreschi di Valcamonica si collocano immediatamente dopo quelli trentini nel Castello del Buon Consiglio, frenati, tenuti a bada dalla presenza-controllo del principe vescovo Bernardo Cesio, ipotizza che quelli nascano in piena autonomia, senza eccessivi lacci dei committenti, insomma quasi liberati da freni, regole e persino decoro. Testori definisce le figure romani-niane del solco montano dellOglio pitòti beceranti. Pitòti si definivano un tempo le incisioni rupestri preistoriche, presenti in grande quantità in Valcamonica, non apprezzandole ma liquidandole come pupazzetti, scarabocchi di fanciulli; pitòto è detto anche di persona mal matura e te ghé so l pitòto sta anche tout court per lunatico.
Quindi, i camuni immortalati dal Romanino risulterebbero lunatici, chiassosi, ignoranti, volgari e triviali: non certo una buona presentazione dei valligiani, anche se oggettivamente poteva corrispondere alla realtà.
Ma tornando al Testori, quei pitòti beceranti non son altro che la povera gente dellepoca, lumanità diseredata che "
il Romanino sembra aver trascinato a forza su tele e pareti, a furia di calci nel sedere".
Il pittore ha bisogno di queste comparse, realisticamente prese dalla strada, anche perché è "
il solo vero, grande sdegnoso e sdegnato barbaro dellintero 500 italiano, il più grande, trovo, triviale dei pittori in dialetto dellarte di ogni regione e di ogni tempo". Con un anticipo di ben trecento anni, Romanino - invertendo tendenze più che consolidate - dà lavvio in pittura a quel che poi farà il Manzoni in letteratura col suo romanzo: la massa derelitta, le cui lacrime nel corso dei secoli nessuno ha mai consolato, viene improvvisamente spinta alla ribalta, trova finalmente voce ed espressione. Certo, nella pietà dellartista sono per così dire incorporati anche sdegno, protesta, fremito di ribellione che, di volta in volta, saltano imperiosamente fuori magari sotto forma di caricatura, tensione grottesca, ritmo compositivo agitato e sbilenco, deformazione espressionistica. Lartista in Valle si lascia andare, come ubriaco di libertà espressiva: sembra non temere né i rigori inquisitori della Controriforma, né le convenzioni sociali che, almeno per salvare le apparenze, consiglierebbero - quantomeno in pubblico - di conformarsi al Galateo del coevo monsignor Giovanni Della Casa».
Notevole infine il senso del teatro e della teatralità: lo scopriamo soprattutto nella spiccata propensione per i giochi prospettici, larticolazione dello spazio, il senso del dramma, o della commedia che spesso domina affreschi e tele.
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