La storia
BEATO DIONISIO RIJKEL

Nato a Rijkel nel 1402 da una famiglia assai modesta nel 1421 domandò di entrare nelle Certosa di Ruremunda e Diest, dove venne rifiutato a causa della sua giovane età. Due anni dopo entrò nella Certosa di Ruremunda nella quale visse la sua intera esistenza a pregare, meditare e scrivere. Nell’affresco viene raffigurato con un libro ed una penna tra le mani perché le sue opere ricche di santità furono reputate un bene prezioso per la Chiesa, e fecero esclamare a Papa Eugenio IV “Esulta o madre Chiesa per avere un tale figlio”.

LA CERTOSA RACCONTA ...

di Daniela Pogliani Ceccato
Parte terza

Ed eccomi qualche settimana dopo tornare alla mia amica Certosa. Apprendo così che i certosini che abitarono il luogo fin dall’anno della sua fondazione, 1349, dovettero abbandonarla in seguito alla soppressione dei monasteri decretata nel 1782 dall’Imperatore d’Austria, Giuseppe II. Il quale Imperatore, che pure era figlio dell’illuminata Maria Teresa, aveva dato luogo a una riforma pseudo illuminista detta “giuseppinismo”.
In realtà si trattava di una mescolanza anche di cretinerie che comprendevano la concessione di una limitata tolleranza religiosa per i non cattolici, l’emancipazione degli ebrei, la soppressione degli ordini religiosi non impegnati nell’insegnamento e nell’assistenza, il controllo dello Stato sulle nomine episcopali.
Così, a seguito di una giuseppinata, la notte di Natale dello stesso anno la Certosa divenne Parrocchia del paese di Garegnano.
Sì, d’accordo, ma i certosini, quei certosini del 1782, dove andarono?
Un’irresistibile curiosità, che l’edificio di per sé non aveva stimolato, fu improvvisamente risvegliata dall’ignoto destino di quei monaci. Cercai nei documenti, se non notizie, almeno indizi della sorte di qualcuno di loro. Ma non trovai nulla.
Però cominciai a lavorare di fantasia. La Certosa si animò: immaginavo la loro giornata, le loro preghiere. Arrivai a dar loro un nome, un carattere, un volto. Poco alla volta perfezionai lo scenario dell’ultima sera, quella in cui il Priore, dovette trovare il coraggio di annunciare ai monaci lo “sfratto”. Mi parve di vederli la mattina dopo, pallidi; di sentire le loro parole, le voci arrochite, come accade quando si è stati in silenzio a lungo. Credetti di sentire così:
«Ho paura».
«Anch’io».
«Perché Dio ha permesso che...».
«Taci, fratello, preghiamo!».
Ma come era difficile pregare quel giorno. I cuori di tutti erano in subbuglio; occhi ed orecchie non riescono a dimenticare. Era accaduto tutto così in fretta. La sera prima, pur non essendo né domenica né giorno di festa, la cena era stata servita nel refettorio comune, invece che in cella. Il Priore aveva letto, scandendo le sillabe: «L’imperatore d’Austria, Giuseppe II, ha decretato la soppressione dei monasteri». Le parole erano rimbalzate a lungo nell’aria; la verdura ghiacciava nelle ciotole; nei bicchieri il vino stagnava. Aggiunse: «Domani all’alba lasceremo la Certosa».
Nessuno infranse la regola del silenzio. Non c’era comunque nulla da dire. Tutto era chiaro, troppo. Il giorno dopo la vita di ognuno sarebbe stata stravolta, la comunità sciolta, la Casa abbandonata. Lasciare la Certosa, già, ma per andare dove? In altri monasteri? Quali? La soppressione riguardava tutti i monasteri dell’Impero.

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