SERVIZIO SPECIALE: SIRIA dove le pietre pregano .
copertina ss
Copertina del Servizio Speciale del mese di Maggio 2001


Padre Butros
Nella foto:
padre Butros (Pietro) e la moglie

la famiglia del prete
Nella foto:
la famiglia del prete



di Monica Vanin
foto Calloni

Si sposano con Cristo, ma sono anche regolarmente sposati a una donna. Sono i parroci di rito greco. Ve ne presentiamo due, incontrati nel sud della Siria.

A Koraya, vicino a Suweida, nel Houran, Abdallah Shayid ci sta aspettando fuori da una bella chiesa greco-cattolica, nuova di zecca. «Guardate, vi faccio vedere anche il giardino», dice, mostrandoci con orgoglio una grande aiuola, che inizialmente non ci era parsa così speciale. «Vedete? - dice, portando pazienza verso la nostra lentezza di riflessi - Ad ogni angolo abbiamo piantato un piccolo albero: sono i quattro evangelisti. Questa è la croce, con le rose rosse nel mezzo: è Cristo, che ci ha acquistati col suo sangue».
Abdallah, che prima di offrirci caffè e caramelle nel salone parrocchiale ha anche cantato splendidamente per noi, in chiesa, si scusa di non poterci presentare la sua famiglia (moglie e quattro figli), perché sono andati tutti a Damasco per fare compere. Peccato, avremmo parlato volentieri anche con loro, per toglierci qualche curiosità. Infatti, questo tranquillo terziario francescano in borghese, laureato in economia e commercio, è anche il parroco del paese e di un gruppo di villaggi dei dintorni, sparsi nel raggio di parecchi chilometri.

SPOSATI È MEGLIO

Tra i greco-cattolici è così, ma la regola è comune anche agli ortodossi, ai maroniti e ad altri riti orientali. Un uomo sposato può diventare prete (non è possibile, invece, sposarsi dopo l’ordinazione) e viene destinato al servizio pastorale nelle parrocchie.
In Oriente, è molto più facile essere accettati dalla gente se si è coniugati, possibilmente con figli. Il single, in canonica, è malvisto. Rischia di essere considerato una persona dalle inclinazioni sessuali sospette o che potrebbe insidiare di nascosto qualche donna del paese.
Solo il monaco è tenuto a non sposarsi, e il vescovo viene sempre scelto tra i monaci o i sacerdoti non sposati. Chi ha una disponibilità al sacerdozio, ma non ha motivi spirituali specifici per preferire il celibato, prende moglie, facendo la gioia del vescovo, che così ha più “forze fresche” da mettere a servizio dei suoi cristiani disseminati sul territorio.

UN MARE DI BAMBINI

In Siria, le famiglie cristiane non sono prolifiche come quelle musulmane, però allevano ancora tanta gioventù, e sono molto solide. «Ci sono sessanta persone che chiamano nonna mia madre» dice allegramente padre Abdallah, che ha cinque sorelle e sei fratelli, due dei quali preti come lui. In questo piccolo esercito di nipoti, c’è già un frugoletto che promette bene. «Ha sei anni, e quando serve messa vorrebbe ripulire il calice bevendo il vino rimasto sul fondo - racconta -. Se a scuola gli chiedono cosa farà da grande, risponde sempre: ‘Voglio fare il papa!’».
A proposito di bambini: è inutile dire che la cura della famiglia, in casa del parroco, è a carico esclusivo della moglie. Lui deve spostarsi in continuazione (con mezzi di fortuna!) da un villaggio all’altro, tra visite, esercizi spirituali e attività varie, oltre alle numerose messe.
Ultimamente, dopo una lunga assenza da casa, il figlio più piccolo gli è corso incontro gridando felice: «Papà, papà!» e la moglie ha commentato, con un sospiro: «Be’, riconosce ancora suo padre, è già un buon segno!».

LA MIA LABORIOSA METÀ

Le mogli ci scherzano sopra, e fanno bene, ma non subiscono affatto questa situazione. Il vescovo, infatti, non può ordinare prete un uomo sposato, se la consorte non è d’accordo: è come se entrambi celebrassero un secondo matrimonio con l’impegno pastorale.
La signora diventerà in tutto e per tutto la laboriosa metà del parroco. Non solo dovrà occuparsi della propria famiglia, favorirà anche la nascita di gruppi femminili, aiuterà nel catechismo, sarà una presenza viva ed esemplare da ogni punto di vista.
Così ci racconta il greco ortodosso padre Butros (all’anagrafe Adel) Pscheara, trentatré anni, di cui nove di sacerdozio. Abita a Suweida con la famiglia, in un piccolo appartamento che il suo vescovo gli ha preso in affitto. «Iman, mia moglie, non solo fa catechismo a due classi di bambini, ma cerca di essere un esempio per le donne anche nelle piccole cose.
Per darvi un’idea, ogni settimana facciamo una agape con i parrocchiani: dopo una giornata di digiuno, preghiamo insieme e viene distribuito il Pane consacrato e tenuto da parte in chiesa. Alla fine, ci fermiamo in parrocchia a mangiare. Avevamo proposto che ogni volta due o tre donne preparassero la cena per tutti, ma l’idea ha sollevato qualche mugugno.
Allora si è fatta avanti Iman, dicendo che lo avrebbe fatto lei, da sola, per tutti quanti. La settimana dopo, guarda caso, si è mossa anche qualche altra volonterosa».
Peccato che le parrocchiane le abbiano scaricato senza problemi l’incombenza di pulire la chiesa, ogni sabato, perché "la moglie del parroco precedente faceva così". Però, quando Iman va a Damasco per alcuni giorni a trovare i parenti, le signore dicono di sentire la sua mancanza (non solo, immaginiamo, per motivi interessati). Ah, le donne!

QUANTO SIETE CURIOSI!

Quando il discorso si sposta sulla vita di coppia, i sentimenti, le questioni personali, vediamo padre Butros imbarazzarsi. Già la parola amore lo fa arrossire. Sarà forse perché ha dovuto fare un certo cammino interiore, per arrivare al matrimonio?
Inizialmente, infatti, non ci pensava. Voleva diventare sacerdote, e basta. È stato il suo vescovo (pensate un po’!) a incoraggiarlo a trovarsi una brava compagna. Adel ci ha impiegato tre anni e poi Dio gli ha fatto scegliere Iman, che già era sua amica e vicina di casa, nella parrocchia di S. Elia a Damasco.
Mentre siede sul divano con la sorridente consorte e le due bambine, padre Butros conserva la rigidità “ieratica” dei preti ortodossi, che hanno una maggiore uniformità di aspetto e di stile rispetto ai cattolici. Chiusi nella lunga veste nera, il volto incorniciato dalla barba, sembrano più alti del normale. Hanno spesso una voce profonda e un portamento che conserva sempre un tratto formale.
Le piccole Lusi e Katia gli si arrampicano in braccio con tutto lo slancio e la venerazione tipiche delle bimbe verso i papà. Lui le ama moltissimo, ma è difficile immaginarlo mentre si scioglie in gesti di confidenza. Sarà la presenza di noi estranei, oltretutto, a imbarazzarlo, e anche la difficoltà della conversazione. Abbiamo un prezioso interprete cappuccino che ci aiuta molto, ma tutto sarebbe più facile se potessimo parlarci direttamente. Invece Butros, che ha alle spalle sette lunghi anni di noviziato e di studio, parla solo arabo: per svolgere il suo compito, dice, non gli serve altro.

UGUALI O DIVERSI?

«Il nostro è un matrimonio come tutti gli altri - ribadisce Butros -. Per i cristiani, c’è un solo modo di essere sposati. Se mai, la mia esperienza di prete mi aiuta a capire meglio Iman e il fatto di avere famiglia mi rende più facile comprendere la gente». Le persone, specie in certe piccole comunità “difficili” dei dintorni, hanno imparato ad apprezzare questo giovane uomo così serio, e oggi non lo cambierebbero con nessun’altro.
E lei, la moglie, cosa dice? Sembra sinceramente contenta, e non si sente diversa dalle sorelle o amiche sposate. Suo marito è una persona aperta, schietta, anche se è spesso talmente assorbito dal suo compito da sembrarle un po’ lontano, col pensiero. Neanche le specifiche restrizioni ai rapporti coniugali, che riguardano i sacerdoti sposati, la preoccupano (niente amore il giorno prima di celebrare la messa, e niente il giorno stesso: quindi, salvo altri impedimenti, via libera alle effusioni solo dal lunedì al mercoledì).

UNA “CARRIERA” TUTTA SPIRITUALE

Iman mi ricorda certe serene mogli di medici o di industriali, che sanno collaborare con discrezione alla buona riuscita del marito, sollevandolo da tutte le preoccupazioni quotidiane.
La differenza è che le soddisfazioni della carriera, in questo caso, sono esclusivamente spirituali (Butros ha un modesto stipendio mensile e nient’altro). Basta vedere la vita spartana di questa bella famigliola. L’appartamentino, affittato dal vescovo, è ancora sguarnito di tante cose; anche i mobili della stanza delle bimbe sono un regalo del vescovo. Certo è già un progresso immenso, rispetto alla sistemazione precedente. Fino ai primi mesi del 2000, infatti, hanno vissuto accampati alla bell’e meglio in una stanza di passaggio nel vescovado. Nessuna intimità, in mezzo al via vai di persone di ogni genere: una situazione davvero pesante, che hanno sostenuto tutti e quattro con coraggio.

SPLENDORI E POVERTÀ

Gli amici ortodossi ci hanno offerto da mangiare su un tavolo da giardino: riso, carne e melanzane, insalate, olive e hommos (un’eccellente crema di ceci e sesamo), un menù semplice e gustoso, frequente su tutte le tavole siriane.
Che contrasto con l’opulenza del rito bizantino, della chiesa, dei paramenti! Le risorse dell’intera Arcidiocesi del Houran, raggranellate con le offerte domenicali dei fedeli e di qualche benestante (il Patriarcato non è ricco, benché i greco-ortodossi siano la maggioranza dei cristiani di Siria) vanno in altre direzioni.
Qui a Suweida, per esempio, il nuovo vescovo, Saba Isper, ha inaugurato da poco un bellissimo centro intitolato a S. Paolo (il nome di Paolo è legato alla tradizione cristiana del Houran). È un punto di riferimento per sacerdoti, insegnanti, laici vari, che possono fermarsi per riunioni di studio e di preghiera, o per frequentare corsi: ne sono già stati organizzati alcuni (Canto bizantino, ad esempio, Didattica cristiana o catechesi, Cultura turistica), che hanno avuto l’attenzione della Tv siriana.
È un servizio che funziona anche da strumento di promozione e di autofinanzia-mento. Anche perché il vescovo vorrebbe portare avanti, tra le altre cose, il restauro dell’antichissima chiesa di san Giorgio, a Izraa, un martyrion ottagonale del V secolo, che contiene, in un reliquiario ormai molto logoro, quelle che sono considerate le vere reliquie del martire guerriero.
Guai insinuare il sospetto che quella di san Giorgio (veneratissimo dagli ortodossi) sia una figura leggendaria! Il vescovo, un ingegnere dal notevole carisma personale (e che parla un buon inglese), bolla con parole di fuoco il deleterio razionalismo occidentale. «Questo è un atteggiamento eretico! Noi stiamo facendo studi storici seri sulla figura di san Giorgio. Perché in Occidente non sapete distinguere il nucleo di verità dalle amplificazioni della leggenda? Tanto vale mettere in dubbio tutti i fondamenti della nostra fede, che hanno un’aria così poco logica e verificabile».
Toccati. È proprio un destino: forse dovevamo spiegarci meglio, come da duemila anni a questa parte.
Per fortuna, ci risulta che le comunità cattoliche e ortodosse, qui, siano abituate a collaborare. I sacerdoti si aiutano tra loro e sono ben integrati nella realtà locale. Spesso sono originari del posto, o hanno sposato donne della zona. E i rispettivi fedeli vivono spesso momenti di preghiera comune.
Noi invece, latini e forestieri, ci siamo sentiti eretici, sia pure per una manciata di minuti. Ma è un’esperienza istruttiva: in fin dei conti, l’incontro con l’Oriente è anche questo.