SERVIZIO SPECIALE: SIRIA dove le pietre pregano .
copertina ss
Copertina del Servizio Speciale del mese di Maggio 2001


monastero di San Mosè
Nella foto:
l'impressionante
visione del monastero di San Mosè e Padre Paolo Dall'Oglio

padre Paolo
Nella foto:
padre Paolo
(a sinistra) durante l'intervista

chiesa con l'affresco del "Giudizio Universale"
Nella foto:
l'interno della chiesa con l'affresco del "Giudizio Universale"



di Monica Vanin
foto Calloni

Un monastero arrampicato tra i monti, tra Damasco e Homs, votato all’ospitalità, e in particolare al dialogo fraterno con i musulmani: questo è, oggi, Deir Mar Musa. Un azzardo o un gesto profetico?

A Deir Mar Musa, il Monastero di san Mosè, sulle alture del Qalamun, c’è un gran movimento. Ora c'è una strada nuova, che corre a qualche chilometro di distanza, ma non è mai molto comodo arrivare fin qui. Annidato a strapiombo fra le rocce, a una novantina di chilometri da Damasco, Mar Musa è raggiungibile solo a piedi, sfidando il sole torrido, d’estate, e il freddo pungente, d’inverno. Il paesaggio che lo circonda sembra ideale solo per due tipi di creature: gli uomini spirituali e le capre, che infatti, non a caso, hanno trovato il modo di convivere anche nel rinnovato monastero.

UOMINI E SOLITUDINI

«In questa zona, per la verità, gli uomini sono presenti da millenni. Erano antichi pastori, cacciatori, briganti» racconta padre Paolo Dall’Oglio, gesuita romano, 46 anni, fondatore della nuova comunità che ha riportato la vita monastica tra le pietre di Mar Musa. «Non sono mancati neanche i soldati dato che la Via Imperiale di Diocleziano passava da queste parti e il nostro convento è stato quasi certamente un piccolo fortilizio romano. Quanto ai monaci, hanno popolato le grotte scavate in questi monti fin dai primi secoli del cristianesimo. Vivevano come nelle laure palestinesi, una via di mezzo tra l’eremitaggio puro e la vita comunitaria».
Nella laura, i monaci trascorrevano la maggior parte del tempo in capanne o grotte scavate nella roccia, non molto lontane le une dalle altre, ma avevano anche una piccola chiesa in cui pregare insieme, l’assistenza di un sacerdote e momenti di vita in comune.
«Non è poi troppo diverso da quello che facciamo noi oggi» continua padre Paolo, mentre camminiamo insieme tra le piccole “cellule” di vita che compongono questo complicato organismo monastico. «Stiamo cercando di recuperare le vecchie grotte, e di costruire ‘casette’, circondate da una recinzione comune (in particolare per la futura comunità femminile). In genere, cerchiamo di garantirci la possibilità di una vita appartata. Chi desidera isolarsi maggiormente, per un certo periodo di tempo, può farlo. Jens, che ormai è monaco della comunità a tutti gli effetti, ha trascorso un mese nella sua tenda, da solo, sulla montagna».

PREGHIERA, LAVORO, ECOLOGIA

Ma come vivono, di norma, questi monaci, che non si fanno riconoscere né da un abito particolare (vestono rigorosamente in borghese, nella massima semplicità) né da altri segni esteriori?
«Ci svegliamo al mattino molto presto, e ci dedichiamo a qualche lavoro manuale. Abbiamo le capre da curare, e siamo anche attrezzati per fare del buon formaggio. Alle sette e trenta, siamo in chiesa per la preghiera comune, seguita da una catechesi o dalla lettura di testi dei Padri della Chiesa. Poi lavoriamo fino alle tre del pomeriggio, come usa fare la gente di qui».
L’impegno non manca. In un vivaio, ai piedi del sentiero, i monaci selezionano e coltivano le piante tipiche di questa zona, che poi possono essere trapiantate nei dintorni, in luoghi adatti. «È un modo per accrescere la responsabilità verso l’ambiente, e infatti abbiamo la collaborazione dei ministeri siriani e delle associazioni agro-pastorali» tiene a sottolineare Paolo. Ci sono già un migliaio di nuovi mandorli, qui intorno. Per le necessità degli uomini, degli animali e dei vegetali, sono stati scavati due pozzi ed è in costruzione una piccola diga, in grado di trattenere 1000 metri cubi di acqua piovana».

TRE VOTI PIÙ UNO

«Al pomeriggio viviamo alcune ore di maggiore libertà. Verso le sei o le sette di sera, a seconda della stagione, trascorriamo insieme un’ora di silenzio in Chiesa e celebriamo l’Eucaristia. La giornata si chiude con la lettura e meditazione della Parola di Dio. Una volta alla settimana, inoltre, ognuno di noi deve prendersi un intero"giorno di silenzio", di raccoglimento libero e pieno».
Monaci come tanti altri, allora? «In certe cose sì. Il nostro itinerario vocazionale non è molto originale: è previsto un primo approccio, o ‘postulantato’, piuttosto libero, seguito da tre anni di noviziato vero e proprio. Ma nella nostra professione solenne, ai tre voti consueti (obbedienza, povertà e castità) se ne aggiunge un altro, che unisce all’impegno di ospitalità una particolare attenzione verso il mondo musulmano». Ecco il volto speciale del monachesimo di Mar Musa.

L’OSPITALITÀ DI ABRAMO

È un tentativo estremo di incarnare la filossenia, il gesto con cui Abramo ha accolto, nella persona dei suoi ospiti soprannaturali (i tre angeli), Dio stesso.
Durante la giornata, Paolo e confratelli non fanno mancare ai visitatori vari generi di conforto: la gioia di una conversazione, la condivisione della preghiera, una visita guidata nell’antica e bellissima chiesa affrescata (restaurata in questi anni, a cura dell’Istituto Centrale del Restauro di Roma) e naturalmente il pane e l’acqua, il formaggio e le salse, puntualmente serviti agli ospiti che cercano scampo dal sole sulla terrazza coperta.
Guardando il grande telo tirato tra i pali, sullo sfondo del panorama limpido e deserto, non si può non pensare che questa “tenda da nomadi” spalancata sul mondo è davvero il simbolo dell’esperienza che si sta facendo qui, da dieci anni a questa parte.

APERTI AL MONDO

«Cerchiamo di mantenere la massima apertura verso tutti», continua padre Paolo, mentre Huda, la valorosa monaca che è qui da oltre sei anni, lo interrompe con discrezione, ogni tanto, per aggiornarlo su necessità varie, arrivi e partenze. Questo carattere di “comunità aperta” («La comunità, oggi, siete anche voi, che state parlando con me», dice Paolo) è il punto di forza ma anche uno dei grandi azzardi di questa esperienza. Si rischiano la dispersione e la confusione, innanzitutto.
«Certo, non è facile, è l’impegno che ci costa di più», ammette Dall’Oglio. «Ma non vogliamo cambiare: stiamo cercando di organizzarci sempre meglio, per non rimanere travolti dalle relazioni con i nostri ospiti e poterci garantire il giusto grado di raccoglimento monastico».
Indubbiamente ce n’è bisogno. Sotto questa tenda, si incontra un campionario praticamente illimitato di visitatori, con esigenze diverse. Ragazzi arrivati qui per la formazione catechistica, o semplicemente per una bella gita; religiosi vari; “pellegrini dell’assoluto” in cerca di luce interiore. Ma arrivano anche turisti (cristiani e musulmani) patiti d’arte e di storia, famigliole che si sono date questa meta insolita durante un giorno di festa; e poi ogni genere di studiosi, oltre ai cultori della New Age e agli immancabili curiosi.
Giungono anche “ospiti” estremamente discreti, però. Come un Piccolo Fratello di Charles de Foucauld, che ha trascorso circa un anno in preghiera, da solo, sulla montagna.

LA PROFEZIA DI FRANCESCO

«La cosa che abbiamo più a cuore è il rapporto con la cultura maggioritaria del Paese, l’Islam. In certe zone, il rapporto è numericamente schiacciante: i cristiani qui, sono solo il 3 per cento” precisa padre Paolo, senza nascondersi la realtà. E allora, come valorizzare al massimo la presenza cristiana, che in Siria rischia di assottigliarsi sempre di più?
«Seguendo l’esempio di san Francesco a Damietta», è la risposta «che in mezzo al divampare delle Crociate ha profetizzato il fallimento della soluzione militare e ha annunciato una via molto diversa per portare Cristo nella tenda del sultano. Comunque, sia chiaro, noi non siamo qui ‘in cerca di martirio’. Ci sentiamo molto vicini ai sette monaci trappisti dell’Atlante, che poi il martirio l’hanno effettivamente subìto, ma erano andati in Algeria per instaurare una relazione di amicizia e fraternità, in nome di Cristo, con i musulmani».
A Mar Musa, questa amicizia parte dalla quotidianità: dal rapporto con gli operai musulmani, ad esempio, che lavorano qui da anni, mantenendo le loro famiglie («e sono gran brava gente», ribadiscono i monaci), vivendo praticamente in simbiosi col monastero. Poi ci sono i turisti locali, animati da sane curiosità. E soprattutto c’è una struttura in crescita, la biblioteca, particolarmente ricca di libri sulla spiritualità orientale. «Oltre che al cristianesimo, è dedicata per la maggior parte all’islamistica. Vorremmo che diventasse un punto di riferimento per tutti, per i singoli ospiti ma anche per gruppi e istituzioni, con la prospettiva di realizzare incontri e seminari, che aiutino la conoscenza reciproca».

LA VIA DELL’ORIENTE

Padre Paolo si illumina quando parla di queste cose. Si capisce che la sua dedizione è irrevocabile e senza riserve. E che ha davvero radici profonde.
Dall’Oglio è “nato” alla vita religiosa nel 1974. «In quell’anno», racconta «ho capito che avrei rinunciato al matrimonio, perché la mia strada era un’altra». Di quella rinuncia ricorda perfino la data, il 12 maggio. Evidentemente, l’aspirante moglie c’era e come, e forse non le sarà stato facile rinunciare a questo fidanzato alto, roccioso, dalla personalità fortissima, con una voce baritonale imperiosa (che però sa concedersi, ogni tanto, sfumature di imprevista tenerezza).
Già nel 1975, dopo la riflessione propiziata dal servizio militare (come alpino, tra i monti), Paolo aveva messo a fuoco la scelta di diventare gesuita. Ma aveva anche fatto l’incontro determinante della sua vita: l’Oriente islamico-cristiano.

COLPO DI FULMINE

Il primo approccio era stato dei più tradizionali: il pellegrinaggio in Terra Santa. Ma con tutta la regione, e la Siria in particolare, è stato amore a prima vista. La spiritualità fiorita in questi luoghi l’ha subito catturato. Così, ha cominciato a concentrare i suoi studi sul cristianesimo orientale e l’islamistica, che l’hanno portato a Napoli, in Libano e a Damasco.
Ne è nata una tesi sulla “escatologia musulmana in rapporto all’escatologia cristiana”. Parole difficili, che però alludevano a una cosa relativamente semplice: esiste una volontà di Dio che si deve compiere nelle relazioni tra Islam e Cristianesimo, all’insegna dell’amore evangelico. In sintesi: “o c’è una speranza comune, o non c’è speranza per nessuno”.
A quel punto, Paolo aveva scoperto la sua vocazione.

UNA STRADA IN SALITA

Quando, nel 1982, è arrivato a Mar Musa (che era in rovina da circa un secolo) è scoccato il secondo colpo di fulmine: non solo sapeva ciò che doveva fare, ma anche dove!
Così, è iniziata la duplice avventura: quella del restauro (condotto grazie alla Cooperazione italiana e al governo siriano) e quella della nascita della comunità, tra difficoltà di ogni genere. I problemi sono nati sia con la Compagnia di Gesù (che l’ha “sospeso” per alcuni anni) sia con le autorità cristiane locali. Nessuno digeriva l’idea di questo bizzarro gesuita, che in un angolo di deserto s’era intestardito a fondare una comunità monastica votata al dialogo coi musulmani.
Però non sono mancati gli incoraggiamenti: da parte di illuminati vescovi orientali, ad esempio, ma anche da Enzo Bianchi, priore di Bose, e infine dal cardinale Martini.

CRISTIANI PER, CRISTIANI CONTRO

Oggi il rapporto con la diocesi siro-cattolica è sereno, tanto che uno dei monaci di Mar Musa, padre Jak, è diventato parroco di un paesino nella zona di Nebek. Ma sono stati proprio i cristiani d’Oriente a mettere in discussione per primi il progetto di Paolo. «Alcune iniziative sono state vietate, e mi è stato detto che, nonostante sia legato a questi luoghi da quasi vent’anni, non riesco a capire fino in fondo la loro mentalità e le loro scelte. Quanto è difficile essere cristiani per, al servizio dell’altro, e non cristiani contro, impegnati a marcare le differenze!».
«I cristiani di Siria», prosegue Abuna Paolo «si sentono tutt’al più accanto ai musulmani, e ripetono che per raggiungere questo risultato hanno già pagato un prezzo altissimo. Io li amo e li stimo anche per questo (non per nulla sono sacerdote di rito siro-cattolico), ma difendo il valore e la necessità della nostra proposta. Ragiono da straniero? Chi è qui con me si rassegna a questo destino di xenoteia». Del resto, potrebbe essere stata anche la sorte del santo titolare del monastero, il misterioso Mosè l’Abissino.

SAN MOSÈ: CHI ERA COSTUI?

Mosè, si racconta, era un principe etiope, che aveva lasciato il suo paese per abbracciare la vita religiosa, sotto la guida dei monaci della Schete, in Egitto. Si trasferì in Siria, fermandosi prima nel monastero di san Giacomo a Qara, poco lontano da qui, e infine in una delle grotte di questi monti, dove condusse vita eremitica, subendo infine il martirio (forse, all’epoca delle persecuzioni seguite al Concilio di Calcedonia).
Bella storia, indubbiamente. Ma c’è qualche testimonianza che la confermi? «Sappiamo solo che qui, nel VI secolo, esisteva già un monastero dedicato a san Mosè, che però non era definito ‘l’Abissino’», risponde padre Paolo. «Forse, la parola Habis, il recluso (che abbiamo trovato anche in un’antica iscrizione, in chiesa) è stata letta Habasi, l’Abissino, quando sono arrivati alcuni monaci etiopi siro-ortodossi, respinti dai maroniti del Libano. Comunque, io penso che qui sia vissuto davvero un sant’uomo, morto martire all’epoca della fondazione. Probabilmente, il convento era dedicato al profeta Mosè e forse anche questo padre fondatore aveva scelto il nome monastico di Mosè; in Oriente, è una scelta tutt’altro che insolita ».

LA PERLA DI MAR MUSA

“Nel nome di Dio Clemente e Misericordioso, fu costruita questa chiesa benedetta nel nome della Madonna e del santo Mosè il recluso. Il muratore, nell’anno 450”. Eccoci nella piccola chiesa, il nucleo prezioso, la perla di Mar Musa. L’anno di cui parla questa antica iscrizione araba (che è poi la firma del capomastro che ha guidato la costruzione della chiesa) è il 450 dell’Egira, cioè il 1058 dopo Cristo. Erano anni critici, durante i quali si era appena consumato il grande divorzio tra il cristianesimo d’Oriente e d’Occidente.
Quanto sono in armonia col destino del monastero, queste poche parole, col loro evidente “profumo di Islam”!
Ma se le varie iscrizioni sono una dolce fatica per gli interpreti, il vero tesoro di Mar Musa sono gli affreschi, che rivestono quasi tutto l’interno della chiesa e ne fanno un capolavoro di freschezza, di varietà e di libertà, realizzato nell’arco di un secolo e mezzo (tra il 1058 e il 1208 circa). Non esiste niente di paragonabile, in tutto il Paese. Basterebbe solo la parete ovest, col suo affollato Giudizio Universale, a renderla unica!

NEL GIORNO DEL GIUDIZIO

All’appuntamento dell’Ultimo Giorno non manca proprio nessuno. L’immagine di Cristo Giudice ormai è quasi illeggibile, ma in compenso vediamo perfettamente Pietro e Paolo, Maria e gli apostoli, gli angeli e i Padri della Chiesa, e perfino Adamo ed Eva, impegnati a intercedere per la loro sciagurata discendenza. Profeti e patriarchi tengono in seno le testoline, ovvero le anime, dei beati. Non mancano i martiri, e tra i santi, per fortuna, sono stati collocati anche monaci e monache. Fin qui, tutto bene.
Quando guardiamo dall’altra parte, tra i dannati, c’è subito da sobbalzare. Il posto d’onore è occupato dalle gerarchie ecclesiastiche, che piangono lacrime e sangue, coi solenni paramenti divorati dal fuoco; poi ci sono uomini che professano varie religioni, monaci e monache piangenti. Alcune anime, bendate come mummie, sono paralizzate dalla sete di denaro, dalla violenza, dall’omicidio, dai commerci fraudolenti, mentre al pianterreno dell’inferno si stende l’immancabile schiera degli adulteri e dei lussuriosi (ma satana non si accontenta, e cerca di far scendere dalla sua parte i piatti della divina bilancia).

UNA LUCE SULLA MONTAGNA

Non c’è dubbio: c’è sempre stato di che meditare, tra le pareti della piccola ed eloquentissima chiesa! Ma anche noi, che scendiamo da Mar Musa (facendoci minuscoli, attraverso il pertugio d’ingresso), portiamo qualcosa di nuovo nel sacco da viaggio. Non solo qualche libro in più, ma parole, memorie, un’esperienza da non disperdere nel vento.
A san Simeone lo stilita (anche lui raffigurato nella chiesa, con tanto di colonna) padre Paolo e confratelli dovrebbero fare simpatia. «Ho chiesto la sua intercessione, infatti» ci ha detto Abuna Dall’Oglio, e la notizia non ci ha sorpresi affatto.
Se oggi Mar Musa continua a vivere e crescere è per la fitta rete di amici che ha trovato, sparsi per il mondo. Anche la Comunità europea sostiene il suo progetto di dialogo tra le culture. E la Fondazione Orseri di Roma gli garantirà, fra non molto, un sito internet: un modo per raddoppiarlo in una “comunità monastica virtuale”.
«Non abbiamo mai trovato il grande sponsor, ma probabilmente è giusto che sia così» ha commentato padre Paolo. E se invece il grande sponsor occulto di questo miracolo fosse, lui, Simeone, il “candelabro della fede”? È bello pensarlo. Perciò auguri, amici di Mar Musa: che la vostra luce non debba spegnersi mai.